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I Capannoni di Parma: storie di persone e di città-Un passato che insegna al presente

di Titti Duimio

Presentato ieri 19 novembre online sul canale YouTube del Centro Studi e Movimenti il nuovo volume edito da Mup ‘I Capannoni di Parma- Storie di persone e di città’ a cura dal Centro studi movimenti e dal Dipartimento di Ingegneria e Architettura dell’Università di Parma, che avrebbe dovuto accompagnare un’omologa mostra prevista al Palazzo del Governatore per il 14 novembre e spostata all’inizio del 2022.

L’evento online è stato moderato da Gianluca Zurlini e anticipato dai saluti istituzionali dell’assessore Michele Guerra.

Storie di persone e di città come recita il sottotitolo del volume che raccoglie anni di ricerca e di ricostruzione storica basata su atti e documenti provenienti dagli archivi cittadini, storie della Parma del passato che “parlano al presente e aiutano non solo a comprendere ma anche a ridefinire un’identità culturale della città indispensabile per progettarne il futuro” come sottolinea la storica Margherita Becchetti del Centro Studi e Movimenti, curatrice della pubblicazione, durante la presentazione.

“Un perfetto equilibrio tra storia dell’architettura e dell’urbanistica locale, con la costruzione di edifici destinati ai poveri dell’Oltretorrente sfrattati dal regime fascista in nome di una ipotetica riqualificazione urbana, e il racconto storico, sociologico e culturale della Parma abitata dai parmigiani in quegl’anni-spiega Paolo Giandebiaggi del dipartimento di Ingegneria e Architettura dell’Università di Parma-che ha prodotto un racconto completo di una scheggia di storia recente della città”.

Il termine ‘capannone’ ancora oggi identifica un individuo rozzo, triviale e in tanti, a Parma, lo usano per definire quegli individui che fuoriescono dall’etichetta dei modi urbani, civili, borghesi ma da dove deriva questo definizione?

“I capannoni, così chiamati dai parmigiani, nascono come asili per gli sfrattati dell’Oltretorrente negli anni ‘20 e ‘30 in pieno periodo del fascismo, costruiti nelle periferie lontane dalla città per sgomberare le aree urbane dell’Oltretorrente abitate dagli indigenti e considerate insalubri (o forse pericolose?) dal regime fascista.

Tutto ciò in nome di un risanamento ben propagandato dal progetto fascista con il cosiddetto ‘piccone risanatore, che in realtà mirava a ben altro: un vero e proprio manifesto di idea di città pacificata e senza evidenti contrasti e attriti sociali al suo interno in grado di celebrare il regime senza troppe contraddizioni apparenti.

E per farlo era necessario allontanare la parte di popolazione più povera ma anche quella più ‘indocile’ che aveva ideato e partecipato alle Barricate contrastando l’ascesa indisturbata dell’ideologia fascista.

Ecco quindi che nascono queste miserrime costruzioni nelle zone più periferiche della città, in aperta campagna spesso irraggiungibile a piedi, caratterizzate dalla forma a capanna ( da qui il nome popolare di capannoni) che comprendevano una stanza per nucleo familiare, servizi comuni esterni e nessuna bottega e nessun luogo di svago o attività commerciale impedendo così ogni tipo di aggregazione e socializzazione considerate pericolose e sovversive. “Questi locali dovranno essere tali da non presentare troppe comodità così da indurre gli sfrattati a cercare un’altra abitazione altrove” come si legge in una relazione tecnica dell’epoca.

Nello stesso tempo la modifica urbanistica dell’Oltretorrente con la demolizione degli edifici considerati malsani, avrebbe permesso uno spostamento in queste zone della città di cittadini della piccola borghesia già fedeli al regime e quindi totalmente controllabili e gestibili dal potere.

Infatti, come dimostrano i documenti dei diversi censimenti dell’epoca, nelle nuove costruzioni fasciste dell’attuale via Costituente, o di barriera Bixio e viale Vittoria/ via dei Mille, per esempio, vanno a vivere cittadini che provengo da un diverso settore sociale rispetto a quelli confinati nei capannoni.

Solo nel dopoguerra a partire dalla metà degli anni ‘50 per finire nel ‘70 venne ordinata la demolizione di questi edifici e la costruzione di alloggi popolari in alcune zone della città dove vengono trasferiti gli abitanti dei capannoni, sottolineando così un cambiamento radicale della visione della città sostenuto da scelte politiche di altro respiro sociale.

Una ricerca storica accurata e scientifica di una realtà sociale parmigiana quella degli abitanti dei cosiddetti ‘capannoni’ della periferia che mette in stretta relazione l’evoluzione tecnica urbanistica della città con una visione politica che contribuisce alla costruzione del tessuto sociale di un luogo e,di conseguenza, dell’identità culturale che la caratterizza.

“Lo sguardo al passato ci proietta in una contemporaneità impellente e forse una maggiore consapevolezza dell’importanza del tessuto urbano nella nostra storia recente potrebbe suggerire soluzioni ancora oggi. Ideare luoghi di marginalità produce emarginati che mai si sentiranno inclusi nel sistema sociale in evoluzione, quasi con un ruvido e orgoglioso isolamento nella loro diversità stigmatizzata-dice ancora Margherita Becchetti- Dopo il percorso attraverso questo spicchio di storia della città mi viene da chiedere qual’è la risposta di oggi alle moderne marginalità? Quali sono le misure sociali che vengono messe in pratica per ridurre i disagi sociali ancora molto, troppo, evidenti nelle nostre città? I soldi pubblici vengono spesi in misure che mirano al benessere sociale nel suo complesso, al di là della propaganda, o solo di una sua parte? Un esempio per tutti a Parma potrebbe essere la storia di piazza Ghiaia, un tempo luogo di commercio e di socialità popolare, oggi dopo la cosiddetta modernizzazione ha perso la sua caratteristica funzione sociale che la riduce a mero centro commerciale all’aperto senza l’anima popolare di un tempo. Forse nella nostra città i capannoni ci sono ancora, non hanno più la forma a capanna ma sono sempre nella  lontana periferia dell’ipotetico centro borghese e pacificante che il racconto dei capannoni ci ha ricordato.”

Per vedere il video della presentazione qui

Il progetto è a cura del Centro studi movimenti Parma e Dipartimento di Ingegneria e Architettura dell’Università degli Studi di Parma con la collaborazione di Archivio di Stato e Archivio storico comunale ed è stato realizzato con il contributo di Regione Emilia Romagna, Cariparma, Coop. Proges, Multiservice, La Giovane, Nau, Consorzio Zenit, Fondazione Matteo Bagnaresi.

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