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“Generazione usa e getta”: a colloquio col filosofo Galimberti


di Lucia De Ioanna

Gettare una sonda a scandagliare il fondo del nostro linguaggio per trarne indicazioni di senso che possano aiutare ad orientarci: il filosofo Umberto Galimberti, in apertura del secondo incontro del Festival della Parola, organizzato dall’associazione culturale Rinascimento 2.0 con il contributo del Comune ed il patrocinio dell’associazione “Parma, io ci sto!”, parte dalla parola ‘scopo’ andando alle radici del suo nucleo di senso: “scopo è parola greca, deriva dal verbo skopèo che significa guardare in modo mirato, avendo un obiettivo davanti da raggiungere. Uno scopo è quindi qualcosa che si colloca nel futuro ed è questo che manca oggi ai giovani, una prospettiva. Come dice Benasayag ne ‘L’epoca delle passioni tristi’, il futuro non è più una promessa ma una minaccia.”

Punta dritto al nodo della questione oggetto di dibattito Galimberti, senza tentare di addolcire la pillola: per la generazione ‘usa e getta’, ragazzi dai 16 ai 30 anni, il futuro è imprevedibile e in quanto tale non retroagisce come motore di motivazione: perché devo studiare se il mio studio non approda a nulla di significativo?

“Quando mi sono laureato” continua il filosofo “sapevo che dopo il concorso avrei insegnato in un liceo, e così è stato. Oggi un ragazzo che si laurea in filosofia deve sapere che non insegnerà mai questa materia, e questa è una bella differenza. Quando niente ti chiama, la tua vita diventa insignificante: non stupisce il fatto che il suicidio abbia un’incidenza di circa 450 giovani all’anno. Alcool, droga, il vivere di notte non sono forme di ricerca del piacere ma l’esatto contrario: anestetici per non sentire la propria insignificanza sociale.”

Alla prospettiva del filosofo si intrecciano, nella Pergola della Corale Verdi, quelle di Andrea Pontremoli, amministratore delegato di Dallara automobili, e di Giorgio Triani, sociologo dell’Università di Parma, andando alla ricerca, come dice Anna Maria Ferrari, vice capo redattrice della Gazzetta di Parma, delle parole che possano “raccontare questa generazione usa e getta, costruendo un nuovo lessico”.

Se il futuro appare come promessa mancata, forse una possibilità brilla alle nostre spalle e Galimberti torna alle radici greche del nostro linguaggio e del nostro pensiero: per Aristotele lo scopo della vita è l’eudaimonìa ossia la felicità. “Ognuno di noi ha un demone dentro, quel nucleo di sé che per i cristiani è la vocazione. Per essere felice bisogna quindi conoscere il proprio demone e tentare di realizzarlo.”

E la prospettiva di una possibile felicità, non solo personale, a partire dal riconoscimento della propria vocazione, è il tema dell’intervento di Andrea Pontremoli: chi gli ha permesso, da bambino, di riconoscere come legittime le proprie passioni insegnandogli a darsi il tempo per ascoltarle è stato il nonno-filosofo. “Noi piantiamo alberi di nespole ma sappiamo che non saremo noi a mangiarle: saranno i nostri figli e i nostri nipoti a raccoglierle. Con queste parole mio nonno voleva dirmi che quello che facciamo oggi deve essere fatto guardando al futuro e non solo al nostro interesse.”

Il ruolo dell’imprenditore deve essere questo, “portare una luce entro la quale ognuno possa trovare il proprio significato e la propria collocazione, tirando fuori il meglio da ogni singola persona.”

Se dal nonno-filosofo Andrea Pontremoli ha imparato a immaginare qualcosa che ancora non esiste e a lavorare per realizzarlo, questa prospettiva è stata poi applicata dall’ingegnere alla propria comunità di Bardi, che correva il rischio di perdere la scuola. “Ho immaginato un modello di scuola differente, ispirato dalle forme osservate a Cambridge: piccole classi i cui alunni possono fare affidamento sulla figura di un tutor il cui ruolo è quello di garantire un pari livello di apprendimento, dando attenzione a ciascuno. E questo modello lo abbiamo realizzato: le mie cinque figlie hanno potuto studiare a Bardi e tutti gli alunni hanno conseguito risultati in media superiori di un punto a quelli registrati a livello nazionale.”

Sempre in questa ottica di restituzione secondo la quale ‘bisogna sempre restituire quanto si è imparato e guadagnato’ si colloca anche la scelta di tornare nella propria valle e creare una scuola per giovani disoccupati del territorio, mettendo a loro disposizione i nostri saperi e i nostri strumenti. “Trovare la propria peculiarità e farne un punto di forza, come il Maradona che tirava solo di sinistro”, è questo il messaggio di Pontremoli ai giovani. “Quello che oggi sembra mancare è quella disponibilità di tempo che caratterizzava la nostra infanzia. Oggi velocità e incertezza segnano la nostra esperienza e questo, su un piano matematico corrisponde al caos: ricordiamoci però che noi italiani siamo imbattibili nel gestire il caos e questo può renderci non insignificanti nel mondo”.

Caotico appare anche il linguaggio usato sui social, come osserva Anna Maria Ferrari nel dare la parola a Giorgio Triani: ma sono i giovani ad usare questo linguaggio violento e caotico oppure la generazione dei loro padri? “I giovani sono molto bravi” osserva Triani, “vivono in un fine epoca che ha visto profonde trasformazioni, una rivoluzione permanente che lascia frastornati. La richiesta, in una società che pretende dal singolo un continuo rinnovamento perché se non sei ‘up to date’ sei morto, è quella di fermarsi. Il linguaggio del web è drammatico ma questo non può essere imputato ai giovani: la violenza sta soprattutto nell’uso che ne fanno i cinquantenni e i sessantenni. Facebook è preda dei cosiddetti ‘silver users’ mentre i giovani sono già scappati. Le cose peggiori, inenarrabili per degrado linguistico e per vile piaggeria verso chiunque abbia qualche potere, vengono dalla generazione dei padri.”

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