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Parma capitale della Food Valley: scopriamo i Musei del Cibo

Il circuito dei Musei del Cibo della provincia di Parma mira a valorizzare le eccellenze enogastronomiche presenti nel territorio. Ma dove e quali sono i musei del cibo nella capitale del Food Valley? Ce ne sono ben 6. 

 

Museo del Parmigiano-Reggiano, nella Corte Castellazzi di via Volta 5, a Soragna (PR)

Il Parmigiano-Reggiano, il classico e prestigioso formaggio italiano noto ed apprezzato in tutto il mondo per le sue peculiarità inimitabili, vanta origini antichissime e già Columella, Varrone e Marziale in epoca romana, decantavano la produzione e la fama di un formaggio di provenienza parmigiana con caratteristiche molto prossime a quelle dell’attuale Parmigiano-Reggiano.

Il Consorzio del formaggio Parmigiano-Reggiano, sorto nel 1934 a Reggio Emilia, associa i caseifici produttori del formaggio omonimo nelle province di Parma, Reggio Emilia, Modena, Mantova e Bologna, che costituiscono la zona tipica di produzione.
La qualità del formaggio Parmigiano-Reggiano è il felice ed equilibrato risultato di molteplici fattori, dalla particolare qualità dei pascoli e del latte, alle tecniche artigianali di lavorazione, immutate da sette secoli, alla stagionatura naturale, alla totale assenza di conservanti, antifermentativi, additivi o coloranti, al rigoroso controllo qualitativo operato dal Consorzio che raggruppa circa 500 caseifici artigianali della zona tipica (che rappresentano, a loro volta, circa 6.000 allevatori produttori di latte). Il Parmigiano-Reggiano è stato insignito del marchio di Denominazione di Origine Protetta DOP della Comunità Europea.

Curiosità: per produrre un kg di Parmigiano occorrono 16 litri di latte di alto pregio, una regola applicata con rigida autodisciplina e con rigorosi controlli per ottenere una produzione di elevatissima qualità.

 

 

Museo della Pasta, nella Corte di Giarola, Strada Giarola, 11, Collecchio (PR)

“Per pasta alimentare si intende una miscela di farina di grano tenero o semola di grano duro con acqua o altra sostanza liquida che permetta di ottenere un impasto ritagliato in piccole forme regolari che saranno cotte a calore umido”.

All’inizio tutto veniva fatto a mano, con la forza delle braccia, ed appunto per questo la sola forma di pasta alimentare possibile era lo gnocco. Ma accanto a lui, quei formati ottenibili manipolando con le mani, o strumenti molto semplici, il pastone di semola e acqua, fino ad avere, sul tavolo, le diverse varianti locali delle orecchiette, le trofie recchesi, i cavatieddi di Puglia…

In un secondo tempo ci si accorse che sottoponendo la massa dell’impasto alla pressione e al va-e-vieni di un bastone cilindrico liscio e di calibro eguale, si poteva ottenere la sfoglia. Al primo posto le lasagne e poi tutta la gamma dei formati analoghi, ricavati con il taglio della sfoglia: tagliatelle, tagliolini, taglierini, oppure, considerando ciò che dal taglio si ricava, fettucce e fettuccine. Tutte cose buone da mangiare, anzi da pappare: ecco così le pappardelle in Toscana e paparelle a Verona.

Nel Museo è stato ricostruito un pastificio del 1850 di Chiavari. Quel pastificio era a bûtega da fidiâ = il laboratorio da pastaioche nella prima metà Ottocento, Giuseppe Sivori (nato nei primi anni Venti dell’Ottocento) gestiva, nel tratto occidentale del caroggio drïto nei locali tra questo, dove si apriva il negozio di vendita, e il retrostante caroggio di bighetti, dove si apriva il retro sopra il quale, al primo piano, stava il macchinario del laboratorio. Ricordando che la versione antica della “gramola a molazza” mossa con forza animale (quella idraulica nel nostro caso è assolutamente da escludere) era in uso in Liguria già alla fine del Settecento e che la motorizzazione compare in Liguria, per quanto ne so, verso l’ultimo quarto dell’Ottocento, nella bottega Sivori la forza motrice era probabilmente quella fornita dai lavoranti,

 

 

 

Museo del Pomodoro, Corte di Giarola – Parco del Taro, ingresso in Strada Giarola, 11 a Collecchio (Parma)

Perché il Pomodoro ha avuto successo a Parma e non altrove? Quello straordinario crogiuolo dell’agro-alimentare che è il nostro territorio, vanta diversi casi di successo che si assomigliano, come l’allevamento bovino e la produzione del “Parmigiano”, l’allevamento suino e la produzione dei salumi. Tutte queste storie trovano il nesso nel “come” conservare un prodotto fresco e deperibile. La genialità e praticabilità della soluzione ha determinato le straordinarie “filiere” dei nostri prodotti tipici.

Per il Pomodoro, nella seconda metà dell’Ottocento un agronomo innovatore come Carlo Rognoni ne propagandò la coltivazione, sostenendo la sperimentazione agronomica relativa e la divulgazione presso gli agricoltori. È l’epoca dei “Comizi Agrari” e delle “Cattedre Ambulanti”, con grande fermento nelle campagne per le novità che la scienza andava portando. Altri grandi Maestri, come Bizzozero e Solari predicano le novità, ognuno con un proprio “stile” e una propria caratterizzazione. Le Casse di Risparmio, nate da poco, sostengono le iniziative. In quegli anni la scienza mette a punto le prime rudimentali tecnologie per le conserve. Rognoni “intuisce” che per dare un futuro alla coltivazione del pomodoro occorre creare e sostenere l’attività di trasformazione in conserve. Si affacciano così alla storia i “pionieri” dell’industria nascente, che si chiamano Mutti, Pagani, Rodolfi, Pezziol e altri ancora, che daranno vita a delle vere e proprie dinastie di imprenditori.

Ma “l’invenzione” parmigiana critica che farà decollare il sistema “pomodoro” a Parma, il vero colpo d’ala, si chiamerà Stazione Sperimentale delle Conserve e vedrà la luce nel 1922. Da allora l’innovazione tecnologica, l’assistenza alle imprese, il controllo di qualità, accompagneranno uno straordinario percorso, che giunge, ai nostri giorni, alla lavorazione di: un milione di tonnellate di pomodoro nel territorio provinciale.  L’altra “invenzione” tutta parmigiana è di tipo commerciale: la Mostra delle Conserve (antesignana dell’odierno CIBUS) che si andrà affermando a partire dagli anni Quaranta del Novecento.

 

Museo del Prosciutto e dei salumi di Parma, Ex Foro Boario, via Bocchialini 7 a Langhirano (PR)

In questa terra fertile, delimitata a Nord dal Po e a Sud dalle giogaie dell’Appennino fin dai tempi più remoti si sviluppò l’allevamento dei suini, favorito dalle vaste estensioni boscose e dalla presenza delle querce, e con queste, delle ghiande. Branchi di maiali pascolavano in vaste aree boschive e le popolazioni di origine celtica, qui stanziate, misero a punto le “tecnologie” necessarie all’impiego delle loro carni e alla loro conservazione.
Solo qui i venti marini che si incanalano per la Val di Magra, asciutti e depurati dalla loro componente salina grazie ai folti boschi di castagne, giungono, oggi come allora, a superare il valico appenninico e a ridiscendere fino ai dolci declivi che coronano la pianura, consentendo una stagionatura eccezionale, favorevole alla conservazione delle carni salate di maiale, lavorate o insaccate che siano. Solo qui la presenza delle acque di Lesignano e di Salsomaggiore, permise l’estrazione diretta di un sale termale, ricco di zolfo, in grado di garantire, grazie ad un suo minore impiego, la conservazione ottimale delle carni e al tempo stesso la loro “dolcezza”.
Le nebbie dense e umide della “Bassa” lambita dal Po, consentono la stagionatura “morbida” di spalle e culatte, dando vita ad autentici capolavori gastronomici. Lo sviluppo dell’arte casearia legata al Parmigiano–Reggiano, consente di nutrire i maiali con i pregevoli “scarti” della lavorazione del latte e del re dei formaggi.
Questa terra annovera una ricca scelta di salumi di eccellenza, dal Prosciutto crudo di Parma al Culatello di Zibello, al Salame Felino alla Spalla di San Secondo, vanto della gastronomia parmigiana, campioni di qualità e dolcezza, di equilibrio nutrizionale e di sapore.

Museo del Salame di Felino, Castello di Felino, Strada al Castello, 1, Felino (PR)

Per Felino, l’assoluta simbiosi con il maiale e la sua storia risale all’età del bronzo, come documentano i frammenti ossei rinvenuti tra i reperti del villaggio terramaricolo di Monte Leoni, situato sulle colline che sovrastano il paese. In particolare, il primo documento relativo al Salame rintracciato a Parma risale al 1436, quando Niccolò Piccinino, condottiero al soldo del duca di Milano che qui aveva una delle sue basi operative, ordinò che gli si procurassero ‘porchos viginti a carnibus pro sallamine’, ovvero venti maiali per fare salami.

Un tempo, la preparazione di un salame dal gusto pieno ma non salato non era facile da ottenere: per evitare fermentazioni indesiderate si aggiungeva, infatti, una buona quantità di sale all’impasto. Nel parmense, invece, si sviluppò una tecnologia che permise la produzione del salame anche con una quantità limitata di sale, sfruttando le caratteristiche del territorio: il sale, di ottima qualità, era prodotto nella vicina Salsomaggiore, mentre la sua localizzazione, allo sbocco della Val Baganza, rendeva Felino idonea alla produzione di eccellenti insaccati, grazie alle sue caratteristiche di temperatura, umidità e circolazione dell’aria.

Nell’Ottocento Felino si orientò decisamente verso la trasformazione della carne più che sull’allevamento dei maiali, tanto che all’epoca in paese erano registrati più produttori di salumi che in ogni altro comune del parmense. In questo stesso periodo i salumi parmigiani erano anche inviati in Lombardia: è attorno al 1897 che a Milano il salame genericamente definito di “Parma” verrà dichiarato “di Felino“, a sottolineare la sua qualità di prodotto preparato con maiali di montagna nutriti con ghiande.

Museo del Vino, Rocca Sanvitale in Piazza Gramsci a Sala Baganza (PR)

Il museo ripercorre la storia del vino dalle leggende greche ad oggi. Ma chi sono i pionieri del vino nel parmense? Ancora dalla Francia giunsero, nella seconda metà dell’Ottocento i Caumont e i Gruau, che impiantarono ampi vigneti specializzati nella zona collinare di Felino, Sala Baganza e Ozzano Taro. A loro e agli enologi d’Oltralpe, all’azione di propaganda agraria di alcuni preti enologi (come Don Ghironi a Sala e, successivamente, Don Botti a Talignano), e ad alcuni emuli locali – i Torrigiani, i Fainardi, i Longhi, i Bergonzi, Cornelio Guerci, Demetrio Bergamaschi – si deve una felice stagione per il vino parmense, che seppe conquistare il podio nelle rassegne internazionali di Londra e Parigi. E anche personaggi illustri dimostrarono di apprezzare i vini parmensi. Luigi Maestri (1837-1912) a Valera selezionò la varietà di Lambrusco più adatta per il terreno parmense che ancor oggi porta il suo nome.

Curiosità: Giuseppe Garibaldi (1807-1882), quando fu ospite a Maiatico dal 27 al 29 aprile 1861 nella villa della marchesa Teresa Araldi-Trecchi si innamorò della Malvasia di Maiatico, ma anche della padrona delle vigne.

Anche il celebre musicista Giuseppe Verdi produceva anche vino nella sua tenuta di Sant’Agata e il Maestro poneva la massima attenzione affinché il fattore facesse tutto quanto per il meglio, poiché egli stesso ne consumava – accanto a diverse altre qualità di vini di altre terre – e pretendeva che fosse quello “della prima schiacciata”; probabilmente quel suo vino era la Fortanina.

Il museo è composto da sei sale con un percorso espositivo e sensoriale. Presente già in epoca preistorica e assai sviluppata in epoca romana, la viticultura ha lasciato importanti testimonianze culturali nel territorio parmense. La prima sala è dedicata alla archeologia del vino nel parmense, con oggetti e immagini provenienti dagli scavi del territorio, che testimoniano come sia nato proprio in questa zona, introdotto dalle popolazioni celtiche, il modo “moderno” di bere il vino, schietto e in bicchieri, abbandonando l’uso greco e latino di vini annacquati e speziati.

La seconda sala approfondisce gli aspetti legati alle caratteristiche della pianta della vite e alla viticultura. La terza sala racconta, attraverso attrezzi e oggetti antichi la vendemmia e la preparazione del vino. La discesa nella affascinante ghiacciaia rinascimentale si trasforma in una esperienza con immagini a 360° che raccontano il ruolo della vite e del vino nel rito, nella storia e nell’arte, immersi in una cultura millenaria ricca di tradizioni.

Dopo aver percorso un pergolato di vite, si approda alla sala delle botti. Qui si scopre la storia dei contenitori per il vino e dei mestieri ad essi correlati: il vetraio e il bottaio. Ma vi è anche spazio per approfondire l’affascinante storia del tappo in sughero e del cavatappi, quella poco nota dell’etichetta e per conoscere le “parole chiave” legate al vino.

La sesta sala presenta i frutti della viticultura parmense: i pionieri del settore, le varietà coltivate, i vini prodotti. Il percorso si conclude, doverosamente, con la degustazione nell’enoteca nei sotterranei della Rocca.

 

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