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Il libro di Mena: affetta da SLA, scrive muovendo gli occhi

di Simone di Biasio

Mena Quinto ha 63 anni. Da 4 è malata di SLA e per la sua più piccola nipote di 6 anni è “la nonna sdraiata”. La condizione di chi è affetto da sclerosi laterale amiotrofica la vediamo, la sappiamo, ma non la conosciamo, non la comprendiamo. Mena vive a Fondi, in provincia di Latina, e combatte la sua battaglia da un letto e un respiratore. Oggi muove soltanto gli occhi e con quelli comunica, con quelli ha scritto il libro “Lettere dagli occhi” (Fusibilia, 2016) appena dato alle stampe. Il volumetto si apre con i disegni dei suoi piccoli nipoti, tra astrattismo, realismo e samurai: ognuno di loro vede la malattia con occhi diversi.

Gli occhi, appunto. Quante cose non ci sembrano vere se non le vediamo? Mena crea ogni cosa, i sentimenti pure, da quello sguardo e compone parole e frasi attraverso la lavagna Etran, un pannello di plastica trasparente su cui sono divise in quattro gruppi le lettere dell’alfabeto: lei con gli occhi letteralmente colpisce i suoni che vuole comunicare e pian piano li raggruppa a formare un senso. Tutto questo non sarebbe possibile senza l’aiuto forte e disperato di familiari ed infermieri, grazie ad una assistenza lunga tutto il giorno. Mena ha paura, ad esempio, se chi fa il turno di notte si addormenta accanto a lei: come farebbe a comunicare se dovesse presentarsi quealche problema? Chi potrebbe notare il suo sguardo che si piega e tocca, come una mano?

In queste lettere passano lo strazio e la gioia di vivere, le cose più semplici e il racconto della malattia, persino l’ironia. «Questa malattia – scrive Mena – non mi permette neanche di piangere, perché non posso asciugarmi le lacrime: mi vanno nelle orecchie e mi fanno male. Se c’è una mosca o una zanzara in casa sempre da me vengono, e io non posso farci niente. Non posso più ridere con i miei nipoti, perché mi si vede la saliva. Ho fatto il botulino, ma non è servito a niente!». Mena non risparmia di parlare di malasanità, di medici senza un cuore, di personale sanitario tutt’altro che competente. Ma descrive anche tutte le splendide persone che le sono accato, i medici più accorti, gli infermieri che fanno quel lavoro come una vocazione. E poi racconta anche di quando sogna di mangiare di nascosto, riempirsi le tasche di noccioline, lei che ha dovuto subire la tracheostomia: è come se sia sempre qualcun’altro a decidere cosa e quando mangiare, e le pietanze – per dire un eufemismo – non sono poi così variegate.

Il libro ha la prefazione di Paolo Fiore, medico e scrittore, grande amante della storia e della filosofia, la persona migliore per aiutarci a capire che «“la parola è piena solo se incontra la benedizione dell’ascolto dell’Altro”, direbbe Lacan, e così, mentre noi intorno continuiamo a parlare, i suoi occhi reclamano, ancora una volta, i nostri perché il linguaggio con lei passa attraverso lo sguardo. Ed il codice è fatto di traiettorie che si incontrano su quella plastica che ci divide e ci unisce insieme. Ci impone l’impegno della traduzione, un’ermeneutica che si fa voce attraverso la nostra bocca passando per i suoi occhi».

 

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