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ESCLUSIVO – Un avvocato parmigiano: “Vi racconto la latitanza del brigatista Alessio Casimirri”

13578974_1086129258162039_218409864_nSu Alessio Casimirri si sono già spesi quintali di inchiostro. Nato da Maria Ermanzia Labella, cittadina vaticana, e da Luciano Casimirri, militare durante la seconda guerra mondiale a Cefalonia e poi capo ufficio stampa dell’Osservatore Romano e responsabile della sala stampa vaticana sotto Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI, è l’ultimo dei brigatisti ancora latitanti. Fra le condanne, quella per il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro.

Oggi ultra sessantenne, Casimirri è latitante in Nicaragua, a Managua, dove gestisce un paio di ristoranti.  Sposato con una cittadina locale, ha ottenuto la cittadinanza a sua volta, e grazie (si dice) a potenti amicizie tra governo e esercito locale, ma anche potenti influenze in madre patria, la sua estradizione resta “sospesa”.

Un avvocato parmigiano, a Managua tra lavoro e diletto lo ha incontrato, e ci ha raccontato alcune cosette interessanti.

Prima di raccontare chi è Casimirri oggi, dobbiamo spiegare ai più giovani chi era “ieri”.

Figlio, si è detto, di una potentissima famiglia vaticana, cresciuto sotto la nobile ala papale, dopo aver militato in Potere operaio e in altre organizzazioni dell’estrema sinistra romana, nel 1977 entra a far parte delle Brigate Rosse con il “nome di battaglia” di “Camillo”.

Con le BR prende parte all’agguato di via Fani con un ruolo di copertura insieme ad Alvaro Lojacono “Otello”, bloccando posteriormente con una 128 bianca le auto di Aldo Moro e della scorta.

Non è il solo omicidio cui risulta legato: il 10 ottobre 1978 aveva fatto parte della spedizione, a Roma, che tolse la vita al giudice Girolamo Tartaglione; il gruppo brigatista era formato anche da Alvaro Lojacono, Massimo Cianfanelli e Adriana Faranda e fu Casimirri a sparare direttamente alla vittima.

Il 21 dicembre 1978 inoltre fu presente, insieme a Rita Algranati, sua moglie, Prospero Gallinari e Adriana Faranda, nel nucleo di fuoco che attaccò la scorta di Giovanni Galloni e ferì due agenti di polizia; in questa occasione Casimirri era alla guida dell’auto impiegata dai brigatisti.

Nel 1980 uscì dalle Brigate Rosse e, nel 1982, fuggì all’estero, arrivando poi in Nicaragua dove partecipò alla lotta dei sandinisti contro i Contras. Individuato in Nicaragua nel gennaio del 1985 insieme a Rita Algranati e Alvaro Lojacono,  condannati tutti all’ergastolo quali ultimi latitanti coinvolti nella strage di via Fani, ove persero la vita i poliziotti della scorta Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi e fu sequestrato il presidente Aldo Moro, insieme ai due compagni proseguì comunque la latitanza.

Loiacono fu arrestato in Svizzera tre anni dopo, l’8 giugno del 1988, la Algranati, sua ex moglie, brigatisti col nome “compagna Marzia”, dopo un periodo a Managua si trasferì in Angola e successivamente in Algeria, per essere poi arrestata al Cairo nel 2004: sulla sua latitanza, su chi e come l’ha favorita, come sulle connivenze di Casimirri, si indaga ancora.

Perché lui, “Camillo”,  invece, è ancora libero. Nel 1998  si è sposato con la cittadina nicaraguense Raquel Garcia Jarquin, da cui ha avuto due figli. Ha aperto, assieme ad alcuni italiani, il ristorante Magica Roma e, attualmente, possiede un ristorante proprio chiamato La cueva del Buzo (il covo del sub) a Managua.

Sulla sua “fuga protetta”, che partì per il Nicaragua dalla Francia con un passaporto secondo molti fornito dai servizi segreti, il tempo ha steso un velo di mistero.

Si racconta di  un paio di tentativi di incursione da parte di due uomini delle istituzioni, un magistrato e un alto ufficiale del Carabinieri, entrambi bloccati prima che le loro azioni potessero avere un seguito.

“La prima volta – ricostruisce il Fatto Quotidiano nel 2014 – ci provò l’allora pubblico ministero di Milano Massimo Meroni, un magistrato che aveva svolto indagini molto accurate sull’omicidio del commissario Luigi Calabresi (17 maggio ’72). Per questo finì sul suo tavolo il fascicolo aperto dalla procura di Roma sulla base delle dichiarazioni di un ex brigatista, Raimondo Etro, il quale riferì ai magistrati della capitale (7 marzo ’98) e poi a quelli milanesi (31 marzo e il 3 giugno ’98) alcune confidenze raccolte nel periodo del sequestro dell’onorevole Aldo Moro proprio dalla nostra primula rossa.

Alessio Casimirri avrebbe detto ad Etro che nell’omicidio Calabresi era coinvolto Valerio Morucci, all’epoca della sua militanza nel movimento di Potere Operaio, di cui era stato fin dagli inizi degli anni ’70 un elemento di spicco, tanto da entrare nel 1972 a fare parte del Direttivo Centrale Romano. L’origine politica di Morucci, legata a un gruppo che aveva molti punti di contatto con Lotta continua (di cui esponenti sono stati giudicati responsabili dell’omicidio Calabresi), pur nella diversità di visione nel modo di condurre la lotta di classe, aveva suscitato interesse negli investigatori. Meroni oggi ricorda Etro come una persona attendibile, che non aveva nessun interesse collaterale nel raccontare quella confidenza del tutto spontanea.

Per questo gli sembrava importante andare a sentire la fonte principale e per farlo non aveva che un modo: andare in Nicaragua. Tra l’altro ben prima di Etro, anche una brigatista pentita, Emilia Libera, aveva detto (2 aprile 1982) le stesse cose su Morucci e i suoi possibili legami con il caso Calabresi, aggiungendo che all’epoca questa era la voce che circolava nelle Brigate Rosse. Meroni si attivò immediatamente: chiese alle autorità giudiziarie nicaraguensi di poter interrogare Casimirri. Tutto sembrava pronto, ma la sera prima della partenza una telefonata dell’ambasciata italiana a Managua bloccò Meroni: “Non parta dottore, non se ne fa niente, sono state revocate tutte le autorizzazioni in seguito a un ricorso dell’interessato”. La questione si chiudeva con una porta sbattuta in faccia a un magistrato dello Stato italiano, senza che questo provocasse clamore in Italia. Meroni dopo una serie di tentativi si trovò costretto ad archiviare il procedimento (20 luglio 2000).

Se il fallimento del viaggio del magistrato milanese è imputabile alle protezioni nicaraguensi accordate a Casimirri – “sicuramente quel paese lo protegge molto”, dice oggi Meroni che non si sbilancia sulle responsabilità italiane – la faccenda dell’operazione tentata per riportarlo a casa è bene diversa.

Tra il 2005 e il 2006, dopo la cattura di Rita Algranati, ex moglie di Casimirri, Enrico Cataldi, un ufficiale puntiglioso e attento, allora direttore della divisione ‘terrorismo interno’ del Sisde, pensò che si potesse orchestrare la stessa identica azione per riportare in Italia il latitante numero uno delle Br. Algranati, la ragazza con il mazzo di fiori (il segnale secondo Morucci dell’imminente passaggio della macchina di Moro via Fani) aveva lasciato il Nicaragua e si era stabilita con il suo nuovo marito, Maurizio Falessi, in Algeria.

Il Ros di Mario Mori mise su la trappola, probabilmente realizzata all’interno di uno scambio di favori tra intelligence. Mori riuscì a ottenere che Algranati e Falessi lasciassero il paese che li ospitava, pare che qualcuno li indusse a credere che gli algerini erano pronti a ‘venderli’. Di passaggio in Egitto la fuga dei due fu interrotta all’aeroporto del Cairo, il 14 gennaio del 2004, dagli uomini della Digos di Roma in collaborazione con Ucigos e Sisde. Gli investigatori romani spiegarono che alla loro cattura, “oltre a un enorme lavoro di intelligence della polizia italiana con il servizio interno civile, si è arrivati anche grazie a uno scambio di informazioni tra i servizi italiani e quelli del nord Africa, che hanno consentito alle forze di polizia di mettere in atto i giusti dispositivi investigativi”. Algranati e Falessi furono subito espulsi, ricondotti in Italia e arrestati.

Il generale Cataldi, che oggi mantiene un assoluto riserbo e rifiuta ogni commento, pensò di attuare la stessa strategia per acciuffare Casimirri: avrebbe trovato il modo di indurlo a lasciare momentaneamente il Nicaragua per bloccarlo in un paese terzo, il Costa Rica, dove l’ex brigatista si recava per motivi di lavoro, d’accordo con le autorità locali. Cataldi è un ufficiale noto nell’ambiente per l’estrema meticolosità e per la tenacia nel raggiungere i suoi obiettivi. Era sicuro di riuscire anche in quella occasione. Erano già stati comperati i biglietti aerei dall’agenzia del Servizio – che li rimborsò al momento dell’annullamento. Fu bloccato, dicono oggi diverse fonti investigative, non dalle autorità di Managua ma dagli alti vertici del Servizio interno che gli dissero di stare fermo, di occuparsi d’altro, che quella operazione non si doveva fare.

CASIMIRRI NEL SUO RISTORANTE

Casimirri (al centro) nel suo ristorante

Le ombre attorno alla figura di Casimirri sono sempre state tante, ma il tempo pare che lavori per ingrandirle: c’è solo da sperare che la nuova Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro abbia voglia e possibilità di raccontarci qualche pezzo di verità, compresa la faccenda delle protezioni accordate all’ex brigatista e ai segreti che, evidentemente, custodisce”.

Ed eccoci allora al racconto della nostra “talpa”, anonima per scelta di sicurezza.

“Che Alessio casimirri è un appartenente alle Brigate Rosse, uno che a partecipato al commando e al l’uccisione di Aldo Moro lo sapete tutti no?” – inizia. “Ora, da 5 anni  gestisce uno dei migliori ristoranti in Managua, propone pesce fresco.  Si spacciare per essere un grande chef, ma non lo è, fa cucinare altri in realtà. Il ristorante si chiama “Queva del Buzo”.

Secondo lei perché non è mai stato estradato? “E’ messo bene, a Managua. E’ appoggiato dal governo Ortega perché in tempo di guerra ,essendo un buon nuotatore, ha disinnescato bombe nel mare per conto del governo. Ora gli portano gratitudine, e gli hanno rilasciato residenza e cittadinanza. Ha avuto molte donne e molte mogli, ora che ha 65 anni aspetta un altro bambino”.

Gli ha parlato? Avete mai parlato della sua situazione? “E’ una persona molto prudente, quasi terrorizzata. Ha  paura di tutti gli stranieri, non si fida di nessuno, ha sempre paura, se vede un italiano,  che sia dei servizi segreti. Servizi segreti che più volte sono venuti ma non sono riusciti a riportarlo in Italia grazie al governo esistente, che lo protegge”.

Perché secondo lei? “L’Italia offre molti soldi a chi riesce a riportarlo a casa, addirittura si parla di milioni di euro. La cosa strana è che i nostri servizi non ci riescano, basterebbero narcotizzarlo, portarlo in Costarica e farlo estradare. L’Italia nn collabora col Nicaragua ma il Costarica si. Io penso dunque che sia meglio per l’Italia lasciarlo qua, forse sa tante, troppe  cose di nostri politici che è meglio che non si sappiano, che rimangano a Managua con lui”.

Ha mai sentito dirgli “ho sparato io, ho rapito io Aldo Moro, cose del genere?” Lui si professa innocente, ammette solo di aver fatto parte del commando. Ma sappiamo bene tutti che è falso”.

Francesca Devincenzi

 

 

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