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“Le rotte della morte nel deserto sono ancora più terrificanti”

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Il suo viaggio Andrea Riccardi lo ha iniziato. Non solo per documentare le tragedie ma per prevenirle. L’ex ministro per la Cooperazione Internazionale e l’integrazione e fondatore della Comunità di Sant’Egidio è pronto a tornare in Africa per contribuire a rimuovere le cause di un esodo dai costi umani devastanti. Ma prima ha fatto tappa a Parma, per sensibilizzare e spiegare cosa fa e perché.

Come si spiegano gli “sbarchi della morte”?

“Sono il risultato di conflitti e miserie nel Sud del mondo. Bisogna intervenire nelle situazioni di crisi e lottare contro i trafficanti di esseri umani. Si parla dell’olocausto nel Mediterraneo (35mila morti in 15 anni) ma non di quello ancora più terrificante nel deserto. Per questo ho effettuato una serie di viaggi in Africa: anche per sensibilizzare la popolazione a non rischiare nel deserto e nel mare. Ci sono situazioni drammatiche come quella dei profughi eritrei che attraverso il Sinai tentano di raggiungere Israele”.

In quali paesi ha messo in guardia gli africani dai “viaggi della speranza”?

“Burkina Faso, Guinea, Costa d’Avorio, Etiopia, Senegal. Qui, sia come ministro che come amico di questi paesi, ho parlato all’opinione pubblica del rischio delle traversate del Sahara e del Mediterraneo. La prossima tappa è la regione dei Grandi Laghi: Ruanda, Burundi, Kivu. L’Europa si ritiene impoverita, priva di mezzi e incapace di agire nel mondo, ma non dobbiamo abituarci ai cadaveri sulle banchine. L’immigrazione non è solo un problema europeo, il continente nero è travolto da flussi verso il Sudafrica”.

Di chi è la colpa?

“Manca una visione geopolitica in cui collocare il ruolo dei paesi europei: la globalizzazione fa vivere tutto in modo discontinuo. Abbiamo di fronte uomini, donne e bambini: non facciamone dei mostri, né diventiamo tali per loro. L’Europa non può risolvere da sola tutti i problemi, però non può nemmeno chiudersi nell’irrilevanza. Significativamente Francescoa Lampedusa ha denunciato la crudeltà di coloro che, nell’anonimato, prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada alle tragedie degli sbarchi”.

Cosa deve fare l’Italia?

“Coinvolgere le istituzioni europee e gli altri Paesi. Lampedusa va considerata la porta dell’Europa. Finora, nonostante il coraggio dei lampedusani, si è fatto poco su quest’isola. Bisogna concentrare qui lo sforzo europeo. L’Italia deve combattere i mercanti dell’immigrazione clandestina, favorire un’immigrazione legale e promuovere l’integrazione degli immigrati e la cooperazione in Africa”.

È allarme rosso?

“In passato abbiamo affrontato situazioni più pesanti. Nel marzo 1991 arrivarono 28 mila albanesi e nell’agosto altri 20mila. Nel 1992 la guerra in Somalia portò 12mila somali. Tra il 1992 e il 1996 arrivarono 80 mila ex jugoslavi, nel 1999 oltre 30mila kosovari. Nel 2000 quasi 30 mila profughi, specie curdi iracheni. Oggi vivono e lavorano con noi. Abbiamo una platea di immigrati che si stabilizza. Va superata una visione emergenziale: serve un salto di comprensione del fenomeno”.

C’è un rimpallo di responsabilità con l’Europa?

“È necessaria una politica europea dell’immigrazione. Invece i governi europei non si vogliono legare le mani su questo tema che fa perdere e guadagnare consensi. Non si può continuare ad usare l’emergenza-immigrati a fini elettorali. Va spiegato alla gente, onestamente, che è una realtà con cui ci dovremo confrontare per i prossimi anni. Il passato può essere d’aiuto. Possiamo riprendere esperienze come l’operazione Pellicano del 1991, dopo gli sbarchi degli albanesi. E cioè il sostanzioso piano di aiuti del governo italiano nei confronti dell’Albania”.

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