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Omofobia, la paura irrazionale che può uccidere. Salviamo l’amore!

 

di Roberta Nardone 

 

Nascere Paolo, ma sentirsi Paola non è una colpa e non dev’essere una vergogna. Un bambino che gioca con una bambola dovrebbe farlo liberamente. Non dovrebbero esistere pregiudizi, non dovrebbero esistere discriminazioni.

Eppure solo in Italia ogni anno si registrano numerosi atti di omofobia che nei casi peggiori sfociano in suicidi o che comunque lasciano un segno indelebile nella vita di una persona.

Sono numerosi i fatti di cronaca in cui è possibile evincere la presenza di insulti e discriminazioni: a cominciare dal blitz notturno contro il Gay Center a Roma dove è stato affisso un cartello con la scritta “La perversione non sarà mai legge” ad episodi anche più gravi. A Torino una coppia gay ha dovuto cambiare casa e quartiere, stanchi di ascoltare insulti, di ritrovarsi scritte offensive sui muri e sull’ascensore, di ricevere lettere anonime e infine anche vere e proprie aggressioni fisiche. Dall’altra parte del paese, a Bari, Paolo, 18 anni, si è lanciato sotto un treno dopo aver scritto “Perdonami, ti amo” al suo fidanzato. I genitori adottivi non accettavano la sua omosessualità e per questo litigavano ogni giorno. I compagni di classe hanno detto che Paolo veniva percosso, che spesso i genitori “dimenticavano” di apparecchiare la tavola anche per lui o di pulirgli i vestiti. Sarebbero arrivati anche a dirgli che se avessero saputo che fosse stato gay, non lo avrebbero mai adottato. E questi sono solo gli episodi più recenti.

Cosa bisognerebbe fare per sradicare quest’odio incondizionato verso chi non fa niente di male se non amare una persona del suo stesso sesso?

Cos’ha l’amore di sbagliato per essere sottoposto ad un giudizio così forte? Ma soprattutto cosa sarebbe possibile fare per far comprendere ai nostri figli che l’omosessualità non è una malattia, ma che forse la vera e propria malattia è l’omofobia?

Si può avere paura di un uomo che ama un altro uomo o di una donna che ama un’altra donna? Perché fobia significa paura, ma ciò che dovrebbe farci paura non dovrebbe essere l’amore tra due uomini e due donne che sono liberi di fare le proprie scelte di vita, ciò che dovrebbe farci paura è quell’enorme mostro chiamato ignoranza che ci fa esprimere giudizi senza cognizione di causa, tanto per parlare, tanto per far male, chi vuole semplicemente sentirsi libero/a di amare.

PARLA LA FORMATRICE BROCCHI: “MANCA ANCORA L’EDUCAZIONE ALLA DIVERSITA'”

Il termine “omofobia” apparve per la prima volta nel 1972 nel libro “Society and the Healty Homosexual” scritto dallo psicologo americano George Winberg.  Il termine che deriva dal greco e letteralmente significa “paura delle persone dello stesso sesso”, viene usato per manifestare l’intolleranza nei confronti di uomini e donne omosessuali.

La storia ci insegna che, la discriminazione, di qualsiasi natura essa sia, parte da una personalità autoritaria minata da una profonda insicurezza del sé, la quale, struttura attorno a queste debolezze, una paura irrazionale che spesso si  trasforma in odio nei confronti delle minoranze. Quest’ultime vengono vissute come una minaccia in quanto portatrici di valori nuovi o diversi.

Questa “fragilità” espressa sotto forma di intolleranza diventa vettore di pregiudizi e giudizi, come ad esempio credere che l’omosessualità sia un comportamento “deviato” o “contro natura”. Le scienze umane hanno ampiamente sconfessato queste teorie, ma nonostante anni di dibattiti e di riconoscimenti si continua a percepire una vero e proprio rifiuto da parte tanti nell’accettazione di questa prospettiva. Un punto di partenza per ristrutturare questa “resistenza” è di introdurre un’educazione alla diversità, intesa non come una colpa ma, come un valore da coltivare e dal quale imparare. L’essere umano tende all’abitudine e questo gli garantisce una zona di comfort nella quale si sente al sicuro, cambiare significa entrare in crisi e assumersi la responsabilità di rivoluzionare il proprio modo di vedere e comportarsi. Educare al cambiamento pone le basi per una società aperta in grado di uscire dai ruoli di genere e dagli stereotipi delle convenzioni sociali dominanti che ci hanno condizionati ed imprigionati fino ad oggi, del resto meno netta è questa separazione, più la società è pacifica. In buona sostanza, meglio essere uniti e diversi, che “ordinati” e separati.

 

Sabina Brocchi

Counsellor, coach, formatrice
www.ondha.it
sabibro@alice.it

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