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Il Teatro della Corte di Giarola e i suoi incantesimi-Un racconto tra storia e realtà di Teresa Giulietti

di Teresa GiuliettI

La storia della corte. Sulla sponda destra del fiume Taro, nella frazione di Collecchio, c’è un’antica corte medievale, bellissima, ariosa, piena di portici che sembrano bocche aperte, bocche che cantano, sbadigliano, sorridono, e raccontano a chi le sa ascoltare la storia della corte che di secolo in secolo, ne ha viste davvero tante…

Risale al Medioevo, la corte di Giarola.

Un bel giorno e siamo tra l’VIII e il IX secolo, Ingo un nobile franco, decise di far costruire un presidio fortificato, a controllo del vicino guado di un ramo della via Francigena. I nobili, si sa, si sono sempre voluti sentire ben protetti.

Proprio a causa della sua prossimità al fiume Taro, la località fu da sempre conosciuta col nome di Glarola, un chiaro riferimento alla grande quantità di ghiaia che andava depositandosi sulle sponde del fiume.

La storia della corte di Giarola – che oggi ospita la sede dell’Ente di Gestione per i Parchi e la Biodiversità Emilia Occidentale, del museo del pomodoro, del museo della pasta, del Teatro alla Corte, di due sale convegni e di un ristorante – è intessuta di storie lontane e personaggi che vi si sono succeduti, passaggi di proprietà, vicende talvolta fragili, dimenticate, che cedono spazio a vicissitudini ben più affascinanti.

Nel XII secolo papa Gregorio VIII emanò una bolla attraverso cui cedeva alla badessa di San Paolo i diritti sulla corte e sulla chiesa romanica; passarono gli anni e l’intera struttura venne acquisita dai Rossi, per poi essere nel Quattrocento adibita ad abitazioni.

Nel 1451 l’edificio ospitò il duca di Milano Francesco Sforza e qualche decennio più avanti fu il turno di Francesco II Gonzaga che vi si accampò in vista della battaglia di Fornovo.

Dopo la conquista napoleonica e in seguito alla soppressione degli ordini religiosi, che colpì anche le benedettine del monastero di San Paolo, la tenuta fu confiscata dal governo francese e affittata a imprenditori agricoli, primi tra tutti i conti Camillo e Alessandro Zileri.

Sul finire dell’Ottocento la corte passò nelle mani della famiglia Montagna, la quale dedicò buona parte dei terreni circostanti alla coltivazione di pomodori e costruì una fabbrica di conserva e un moderno caseificio.

Mentre le antiche strutture andavano deteriorandosi, l’industria conserviera venne ampliata dagli affittuari; siamo nel Novecento e il destino avrebbe riservato alla bellissima corte medievale ancora molte odissee. In pieno conflitto, nell’aprile del 1945, la corte venne colpita dai bombardamenti degli aerei alleati, causando la morte di nove persone e il parziale crollo della chiesa di San Nicomede.

Dopo la cessazione dell’attività conserviera e del caseificio, il degrado aumentò, finché nel 1998 la corte e le strutture annesse furono acquistate dall’Ente Parco Fluviale Regionale del Taro, poi Ente di Gestione per i Parchi e la Biodiversità Emilia Occidentale, che ne avviò i lavori di ristrutturazione, adibendo parte dell’edificio a propria sede.

Nel 2005 fu recuperata la casa colonica esterna, destinata a Laboratorio storico, mentre nel 2006, su finanziamento della Regione Emilia-Romagna, del Comune di Collecchio e della Fondazione Cariparma, l’ala sud, originariamente adibita a legnaia e deposito, fu trasformata in sala teatrale. E ci siamo finalmente, il Teatro alla Corte fu inaugurato nel settembre del 2007.

 

Il Teatro di Giarola. Nell’ala sud della corte si trova il teatro di cui vorrei raccontarvi. Si sa, quanto i Signori amassero possedere un teatro tutto per sé e deciderne l’impiego, un giocattolino da gestire a proprio uso e consumo capace di allietare serate uggiose, lunghi inverni freddi e nebbiosi (in questo caso della Bassa Parmense), con cui poter contribuire all’esaltazione sociale della propria casata, invitando or questo or quell’ospite di grande prestigio.

Oggi il teatro è aperto a tutti, grandi e piccini, uomini di nobile stirpe (a patto che ancora il sangue blu ci sia) ed esemplari del più ordinario sangue rosso.

Succede che nel 2010 cinque persone con diverse esperienze nell’ambito dello spettacolo e dell’organizzazione gestionale si incontrano e decidono di unire le proprie forze per istituire un gruppo. Ma cosa deve avere questo gruppo di peculiare? A cosa si ispira? Alla comune passione per l’arte e soprattutto per il teatro, inteso come commistione delle più svariate forme sceniche e interpretative, senza troppe etichettature e distinzioni. Da un progetto comune, da ambizioni piuttosto simili, da una fratellanza d’intenti nasce UOT, che sembra un suono onomatopeico estrapolato dai fumetti ma che nella realtà significa: Unità di Organizzazione Teatrale.

Nel 2011 i ragazzi del gruppo vincono un bando di affidamento dello spazio, indetto da Ente Parchi del Ducato, e cominciano a programmare e a organizzare stagioni teatrali, spettacoli e laboratori privilegiando un lavoro di formazione rivolto ai giovani e alle scuole.

Il Teatro alla Corte diventa un luogo di incontro e di riferimento per giovani compagnie e giovanissimi fruitori; le prime quasi sempre muovono i primi passi da professionisti, animate da entusiasmo e parecchia speranza, si tratta per lo più di piccole compagnie sprovviste di un luogo idoneo in cui potersi esibire e, qui, trovano il luogo adatto, le migliori condizioni per potersi misurare con un pubblico particolarmente esigente: quello dei bambini.

Spesso queste giovani compagnie, dopo aver debuttato negli spazi incantati del teatro di Giarola, arrivano a partecipare a Festival importanti e ad esibirsi anche all’estero, ma il sodalizio nato non si esaurisce affatto, anzi; fanno sempre ritorno al primo nido a cui devono tanto.

Ilaria Orefici e Roberta Gatti mi raccontano di come i bambini che arrivano a teatro siano “lo spettacolo nello spettacolo, incuriositi dalla scena, dalle luci, dai personaggi, dai profumi… spesso schiavi dei videogiochi, del computer e di una realtà sempre più virtuale, si lasciano trasportare dalle storie narrate divenendo loro stessi protagonisti”.

Le dimensioni piuttosto raccolte del teatro consentono un avvicinamento anche fisico, oltre che emotivo e creativo; ecco allora che, come dice Roberta, tutto diventa “un’esperienza diretta, molto coinvolgente e sensoriale, senza filtri; soprattutto in un teatro come il nostro dove non c’è quasi divisione tra pubblico e attori e i bambini seduti sulle gradinate di legno si sentono loro stessi in scena, protagonisti, non ascoltatori silenziosi”.

La sala spettacoli ha muri in pietra, un pavimento di legno chiaro, pareti alte e un meraviglioso soffitto a capriate lignee, vi stanno comodamente seduti un centinaio di persone, spesso si tratta di scolaresche, bambini della scuola dell’infanzia e di quella elementare; ma la domenica è possibile imbattersi in allegre famigliole di ragazzini che sembrano portare a teatro i loro genitori, s’invertono un po’ le parti: i genitori immersi in un clima gioioso, quello dell’attesa, attendono il momento in cui uno degli organizzatori apre la porta per consentire l’ingresso nella sala dello spettacolo.

Si viene accolti dal profumo del legno varcando la soglia e prendendo posto a sedere sulla gradinata, asse di legno chiaro che scivolano fino al palcoscenico, rocce che si tuffano nel mare creando un continuum tra chi guarda e chi recita, tra realtà e fantasia.

 

Storie proprio così. Domenica scorsa ho avuto la fortuna di assistere a uno spettacolo insolito e molto piacevole che si è tenuto al cospetto di molti bambini proprio nella sala con le capriate.

Una performance di pittura dal vivo accompagnata dalla lettura esilarante di alcune favole di Rudyard Kipling (quello del Libro della giungla, per intenderci) per voce di una talentuosa attrice, Elsa Bossi. Il pittore, infilato in una tutona nera da lavoro imbrattata di macchie di colore, si chiama Giacomo Cossio ed è un’ instancabile ricercatore della materia e del colore, un viaggiatore curioso senza una meta precisa che si diverte a scoprire la tecnica mentre la esegue, nuovi punti di vista mentre li sperimenta.

A vederlo lavorare sembra non si imponga nulla, nessun risultato predefinito; tutto è un flusso continuo: di gesti decisi, boccette rovesciate sul foglio, dita che strizzano, colori che colano e si trasformano fino a diventare non-colore. O colore-senza-nome. Perché quando cominci un viaggio non sai mai con certezza dove arriverai, e soprattutto come ci arriverai.

Ora vi spiego, la scena è questa: c’è un tavolone di legno con sopra un enorme foglio bianco; attorno, sul pavimento in legno, sono sparpagliati fogli disegnati, fotocopie di animali o sezioni di essi, che il pittore ha precedentemente preparato, e lui è accerchiato da boccette di colore, strani strumenti di cui si servirà per impastare, spianare, cospargere, livellare. Mentre lo si vede lavorare ti chiedi chi sia realmente: se un falegname, uno scultore, un pittore, un direttore d’orchestra, un ragazzino monello che semplicemente si sta divertendo e non vorrebbe che l’attrice smettesse di raccontare le sue favole.

L’attrice è in scena, cinque o sei falcate distante da lui; tra di loro s’inserisce un grande schermo da cui il pubblico potrà seguire, dettaglio dopo dettaglio, l’opera che prende forma. L’attrice, in piedi davanti al leggio, è esile, carina, magrina, con una forte personalità, irradia tutta la stanza mentre legge, interpreta e fa le voci degli animali. Elsa Bossi si avvale ‘alla bisogna’ di cadenze regionali per distinguerli meglio tra di loro, ed essere più credibile, perché un vecchio e indolente cammello mica può avere la stessa voce del bicolorato serpente pitone delle rocce.

L’attrice Elsa mi piace perché non vuole far ridere a ogni costo, è seriamente spassosa e quando da parte dei bambini (e dei loro genitori) scoppia una risata, si vede che è davvero felice, come se avesse fatto centro; cioè, si capisce perfettamente che quello che sta facendo le piace per davvero, che lei per prima si sta divertendo e che non vorrebbe essere da nessun’altra parte se non lì, sulla scena, con gli occhiali poggiati sul naso, il leggio davanti, le braccia che disegnano cerchi, spirali, punti interrogativi, a raccontarci del perché-e-del-percome i cammelli hanno la gobba e gli elefanti curiosi la proboscide lunga.

Usa la voce con facilità esattamente come il pittore Giacomo Cossio imbratta la sua tela e crea le forme, mentre il grande foglio bianco si anima di macchie blu, verdi, bianche, marroni, viola, colate laviche, spruzzi nevrotici, manate sonore, torrentelli di acrilico che si portano via tutto, ma poi vedi che arrivano loro, escono sempre da sotto qualcosa: armadilli, cammelli, rinoceronti, balene, elefantini, ed è allora che la sala si trasforma in una bolla di luce e noi che siamo seduti sui gradini di legno ci lasciamo trasportare da tutti quei colori che hanno un profumo vero, e dalle mani che si muovono sulla tela come quelle di un giocoliere, dallo schermo che ci mostra nel dettaglio la matericità dei disegni, gli spessori, la ruvidezza, il lieve e il robusto, la terra che si sbriciola e l’aria che si condensa.

Giacomo non si arresta mai, se non per girare attorno al tavolo e recuperare da terra un nuovo disegno, una sezione di qualcosa, e lo dispone sul foglio per cominciare il gioco della trasformazione. Il gesto creativo ridisegna sempre, sconfina, fa dimenticare quello che c’era prima.

E l’opera prende forma e si assembla attraverso nuovi pezzi di carta che vengono impiastrati di colore e poi rimossi, colate di luce liquida, oggetti inseriti: foglie secche, rami, pezzi di qualcosa; nello schermo la sua testa si muove a scatti quasi ballasse una sinfonia di colori stonati che poi, verso la fine, si ricompongono sempre, come allievi rumorosi quando entra in classe la maestra.

Chi osserva capisce. Comprende che, in fondo in fondo, non è solo improvvisazione, flusso libero, assenza di regole. C’è una perfetta sintonia tra il pittore e l’attrice, un tacito accordo che nasce dall’empatia artistica e che fa sì che terminino sempre insieme. Ogni viaggio. Ogni favola.

 

 

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