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Il poeta De Alberti ha presentato a Parma la sua ultima raccolta poetica: “Dall’interno della specie”

di Lucia de Ioanna

Frammenti di discorso affiorano come tracce fossili dal greto di un fiume, brillano per un momento come le scaglie dorate di una carpa da tanare in una pozzanghera: quest’ultima immagine è quella trovata da Andrea De Alberti per indicare il senso del fare poesia e questo senso, plurimo e cangiante, mai definitivamente afferrato, attraversa i componimenti della sua ultima raccolta, ‘Dall’interno della specie’ (Einaudi Editore), presentata a Parma sabato 25 novembre presso il Mondadori Bookstore di Piazza Ghiaia.
De Alberti, classe 1974, nato a Pavia, lavora in un ristorante della sua città: l’Osteria alle Carceri. Prima di questo, ha pubblicato altri tre libri di poesia: Solo buone notizie (Interlinea, 2007), Basta che io non ci sia (Manni, 2010) e Litalía (La Grande Illusion, 2011).

Interlocutore di De Alberti, in un dialogo pensato e leggero, il poeta Luca Ariano, anch’egli di origine lombarda, profondo conoscitore di quella Linea Lombarda, individuata da Luciano Anceschi, dalla quale De Alberti deriva alcune suggestioni, trasformandole e metabolizzandole in una scrittura che ha i caratteri di un fatto fisiologico quanto il battito del polso, l’andatura del passo sulla terra.
“Nelle tue poesie” osserva Ariano, “ ho trovato molti riferimenti a poeti lombardi come Giudici e Raboni, quest’ultimo in particolare per le descrizioni familiari e l’attenzione alla società, mentre l’ironia di alcuni tuoi componimenti mi ha fatto pensare a Maurizio Cucchi e a Luciano Erba: qual è il tuo rapporto con i lombardi?”

“Tutti questi riferimenti sono esatti: Raboni, ho avuto la fortuna di conoscerlo e sentirlo leggere. Ho potuto fargli leggere una mia poesia, grazie all’incoraggiamento di Stella, mio professore all’università. Stella inoltre mi consigliò di leggere Cucchi. Quando portai a Cucchi i miei versi, me li bocciò senza pietà e mi suggerì, però, di leggere due autori contemporanei: il primo era Raffaello Bandini, anche lui, come me, figlio di osti, mentre il secondo era, appunto, Raboni.”

La parola viene lasciata ai versi di alcune poesie, lette dall’autore: versi dal tono narrativo che non sostengono una narrazione, se non spezzata, per allusioni, pause, rimandi. La ricerca di senso si affida al verso di un animale, a un segnale, a una didascalia: frammenti di segni il cui riferimento resta non deciso, da interpretare, guardando nella direzione di una vicinanza inattesa tra uomo e animale:

Oasi
È strano vedere una casa dietro a una lastra di vetro,
gli animali si dormono addosso,
lo vedi che anche per loro c’è un’intimità più profonda.
Guarda la lontra, ha ancora la testa sudata,
un castoro nuota a ritroso, il bradipo è sveglio
mentre mio figlio lo guarda dopo il lungo riposo,
oppure la didascalia dice che certi pesci tropicali
mangiano a mezzogiorno come gli umani.
Mi muovo più lento guardando da molto vicino un gufo reale,
osservo il volo del nibbio,
mi sembra il verso del gheppio come un segnale
di avvicinamento all’inverno.

La memoria, il linguaggio e i sensi sono dispositivi che svelano, per un attimo, il rovescio delle cose, l’inatteso, il fantastico, a volte l’equivoco: un essere-adesso che è un altro tempo, un qui che è anche altrove, un’azione pensata per un certo fine che invece coglie il bersaglio sbagliato, minacciando la solidità di una costruzione i cui nessi logici non ne garantiscono più la tenuta. Per lo meno, non ne garantiscono la tenuta nella forma alla quale ci eravamo abituati.

Prima del nuovo mondo

Ci penso spesso che stavamo lí un po’
a rigirare un senso in una camomilla,
a un certo punto dire una frase,
non aggiungere altro, è successo anche
questo ma poteva andare peggio,
certe riflessioni che non escono,
abbracciarsi come stringersi in un’idea del dopo
in una lunga notte di rappresaglia,
dove i tedeschi erano in agguato,
oppure qualcuno che ci era alleato
non lo sapeva ancora e ci bombardava la testa
mentre nostro figlio stava per nascere
in un suo tempo.

Ad un’influenza della poetessa polacca Szymborska fa riferimento De Alberti prima di leggere ‘Il dolore ai tempi dell’Aulin’ una poesia che si distacca dal tono generale della raccolta e richiama, della poetessa polacca, il componimento “Della morte senza esagerare” per l’andamento quasi prosaico, il ridimensionamento di ciò che è alto attraverso l’accostamento a cose quotidiane e piccole, lo stridere di astratto e concreto, la personificazione del dolore, in De Alberti, come della morte, in Szymborska.

Il dolore ai tempi dell’Aulin

Il dolore è a basso consumo energetico,
ha certo per noi un’aria familiare più o meno consolante,
ha un livello di attenzione fuori dal comune,
lo vedi come si attacca a tutto,
ai piccoli nei, alle macchie sul corpo,
non ha un interesse classificatorio,
non fa distinzioni di razza,
il dolore è un tipo di cottura: se non lo controlli,
se non lo giri ogni momento si attacca come il risotto.
Il dolore si produce sia per il freddo sia per il caldo,
dal di fuori e dal di dentro,
si prepara in panchina con un dovuto riscaldamento,
si allena ogni minuto per entrare in campo,
il dolore dorme poco di giorno e niente di notte,
quando ha il raffreddore gli sembra di morire,
quando sta bene è scaramantico e non lo vuole dire,
il dolore ha una parola buona per tutti.
Il dolore è come quando uno non sente al telegiornale
ma capisce da strani segni che qualcosa sta andando male.

Quella che De Alberti presenta come voce del poeta è, in questo volume, una voce diffusa, che ha origine ‘nelle prime fasi dell’evoluzione umana’, condivisa e plurivoca, che prende spunto da ciò che il mondo offre: un articolo di giornale, i resti fossili di Lucy, il testo poetico di un’altra poesia, come nel caso di Interno che si richiama a Mario Luzi, un ricordo, la scena di un film, un eroe della Marvel, una via familiare o un non-luogo come l’Ikea. Quello che ne deriva è la vertigine di un’avventura antropologica che si snoda ‘sotto il regno della finzione’ attraverso “aurore celesti, azzurre virate in un cielo invernale”, pensieri, ricordi, “un futuro da riciclare”, “paesaggi intravisti a un passo dal nulla”: stratagemmi, invenzioni che fanno pensare “all’evoluzione della specie/ come a una ramificazione cerebrale/ che lotta sottoterra per difendersi dal tempo.” E tra queste invenzioni, tra questi stratagemmi che, lungo il percorso dell’evoluzione, ci fanno andare avanti, pur condividendo sottopelle, con i nostri simili, “un’organizzata sensazione di morire”, c’è la poesia, le cui squame luminose di carpa brillano per un attimo in una pozzanghera, a livello di un marciapiede.

Andrea De Alberti
Dall’interno della specie
Giulio Einaudi Editore
€ 10

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